





L’inverno si era abbattuto su Champoluc, nel cuore della Valle d’Aosta, come un gigante di ghiaccio. Le baite di legno e pietra, coi tetti pesanti di neve, sembravano addormentate sotto il manto bianco. Dentro una di esse, il fuoco scoppiettava debolmente nel camino, illuminando il volto rugoso di nonna Élise.
Élise era la custode delle storie e, cosa più importante, l’ultima a possedere una scorta di Fontina abbastanza generosa da affrontare le settimane a venire. Suo nipote, Antoine, un ragazzino esile ma con l’energia dei dodici anni, la osservava mestare con pazienza la farina di mais in un paiolo di rame appeso al focolare.
“Nonnie,” mormorò Antoine, la cui pancia brontolava in protesta, “solo polenta stasera? È così… grigia.”
Élise sorrise, i suoi occhi azzurri vividi come due ghiacciai. “Grigia, dici? La polenta è la nostra amica più fedele, Antoine. Ci ha sfamato quando nient’altro voleva crescere su queste rocce. Ma anche le amiche fedeli hanno bisogno di un tocco di gioia, a volte.”
In quell’anno, la fame si faceva sentire. Il raccolto di segale era stato magro e l’umidità aveva rovinato molte scorte. La polenta, fatta con la farina di mais, era l’unica cosa che abbondasse. Era saziante, sì, ma monotona, e il freddo penetrava nelle ossa.
Élise si alzò, afferrando un grosso pezzo di Fontina che aveva stagionato lei stessa in una grotta fredda. Il formaggio era di un giallo dorato, con un profumo intenso che riempì subito l’aria. Era il prodotto prezioso delle loro mucche, il ‘latte solidificato’ che rappresentava la loro ricchezza.
“Osserva bene, mon petit,” sussurrò. “Il freddo non è solo fuori; è anche dentro le nostre ciotole. Noi dobbiamo combatterlo con il calore.”
Tagliò la Fontina a cubetti grossolani, la cui vista fece brillare gli occhi di Antoine. Non era consuetudine usare così tanto formaggio per un solo pasto.
Mentre la polenta nel paiolo raggiungeva la densità perfetta, Élise prese una padella di ferro e vi fece sciogliere una noce abbondante di burro d’alpeggio, freschissimo e quasi bianco, che sfrigolò invitante. Aggiunse un pizzico di pepe nero, un lusso portato dai mercanti.
Quando la polenta fu pronta, Élise non la versò semplicemente nei piatti. Continuò a mescolarla nel paiolo, aggiungendo a più riprese i cubetti di Fontina e un mestolo di latte caldo. Mescolava con forza, con movimenti lenti e circolari, finché il formaggio non si sciolse del tutto.
In pochi istanti, la polenta grigia si trasformò. Diventò un’onda densa e cremosa, di un giallo intenso e lucido, che si muoveva lentamente, lasciando lunghi fili d’oro fuso. Il profumo di Fontina calda e burro avvolgeva la stanza.
“Cos’hai fatto, Nonnie?” chiese Antoine, avvicinandosi.
“L’ho… concia,” rispose lei, usando il termine dialettale per ‘condire’ o ‘preparare’. “Ho fatto in modo che la nostra polenta si vestisse a festa con il sole d’estate racchiuso nel formaggio.”
Versò la polenta d’oro filante in una scodella di terracotta, creando uno strato generoso, poi, come tocco finale, vi versò sopra il burro fuso e speziato.
La mangiarono in silenzio, seduti accanto al focolare. Non era più un pasto semplice; era un abbraccio caldo che li avvolgeva dalla testa ai piedi. Ogni cucchiaiata era un trionfo sul freddo, un sapore potente che univa la dolcezza del mais, la sapidità ricca della Fontina e il profumo del burro fuso.
Il giorno dopo, Antoine corse dal fabbro, raccontando della “Polenta del Sole” di sua nonna. Il fabbro ne parlò alla moglie, la quale ne parlò al pastore, e così via.
La ricetta si diffuse come il calore del focolare, di baita in baita. Non era più solo polenta; era la Polenta Concia, il piatto che, in un inverno disperato, aveva trasformato un ingrediente umile in un tesoro d’oro filante, donando conforto, forza e un tocco di lusso a tutti gli abitanti della Valle d’Aosta. È così che il “sole d’inverno”, succulento e ricco, nacque sulle tavole dei montanari, unendo per sempre la semplicità della polenta alla ricchezza del formaggio di montagna.

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